mercoledì 10 dicembre 2008

In difesa delle tradizioni, identità, storie e memorie.

Nell’ambito della sinistra italiana l’articolazione del discorso sulle identità locali, sui patrimoni di tradizioni delle comunità e sulla necessità assoluta della difesa e della promozione di tali patrimoni è stata sempre additata con sospetto: si è lasciato alle destre organizzare il pensiero territoriale (fino alla degenerazione xenofoba e razzista) e rivendicare con orgoglio l’istanza delle tradizioni. Identità, tradizioni, lingue, culture, storie e memorie sono invece le radici profonde delle comunità locali, ciò che permette loro di proiettarsi senza paure verso il futuro e verso gli altri.

Il rapporto che una comunità stabilisce col territorio di appartenenza è complesso e stratificato, sia nella storia che nelle dinamiche sociali giornaliere. Luoghi, storie, memorie e paradigmi di rapporti sociali vengono organizzati in un universo simbolico denso, immediatamente riconoscibile, e per questo familiare. Ed è proprio da questo “agio“ culturale, percepibile sia al livello individuale che collettivo, che dipende in larga parte la salute di ogni comunità sociale. Ciò è tanto più vero per le comunità che, a dispetto dell’urbanizzazione dei luoghi e delle pratiche sociali, mantengono ancora un rapporto vivo e presente con il loro sostrato culturale tradizionale.

I saperi, i miti, le tradizioni e le leggende che si strutturano attorno al patrimonio locale di fauna, flora e ambiente, costituiscono, sotto questo profilo, non solo un bagaglio di conoscenze tecniche relative all’utilizzo del territorio, ma stabiliscono anche regole precise, codificate nei linguaggi potenti del mito e della tradizione, di accesso alle risorse, configurando così una logica di sostenibilità di carattere tradizionale. Siamo, in effetti, dinnanzi, ad una vera e propria etnoscienza, un sapere di tradizione orale, scritto nel linguaggio imperituro del mito, ma dotato di molteplici risvolti pratici quotidiani. Un sapere che si è sviluppato autonomamente rispetto i processi della cultura ufficiale, la cultura del potere, ma che con essa può e anzi deve dialogare, per superare l’impasse gramsciana della dicotomia fra cultura egemone e culture subalterne.

Il campo reale, storicamente determinato e determinante, dove i processi culturali e sociali hanno luogo è il territorio, inteso non come mera espressione geografica, ma come l’insieme delle relazioni storiche e sociali, ancorché geo/morfologiche, il luogo di incontro e confronto di bio ed etnodiversità, di saperi, tradizioni ed innovazioni. E le relazioni che le comunità umane stabiliscono col territorio nel quale vivono divengono esse stesse una mappa del territorio. Una mappa articolata e ricca di sfumature, tanto sotto il profilo culturale e sociale, quanto sotto quello materiale, economico e produttivo.

Ed è dunque al territorio, alle sue storie, alle sue cicatrici, che si deve tornare ogniqualvolta i cambiamenti socioculturali prefigurano micro e macro rivoluzioni nei costumi, nell’economia, nei rapporti sociali e produttivi.

In tal senso, il caso dei Castelli Romani è emblematico. Esaurita da almeno due decenni la spinta propulsiva che ha voluto nel consumo del territorio il paradigma economico dell’area, i Castelli Romani sono oggi in una situazione di crisis, di scelta, riguardo il loro futuro. Le ambiguità delle politiche che si sono succedute nell’area e la sostanziale disaffezione della popolazione (in specie le giovani generazioni) ad intraprendere percorsi di conoscenza territoriale locale, incidono sul futuro dei Castelli in maniera drammatica. Le numerose emergenze ambientali in atto stanno indubbiamente per cancellare tutta una filiera di vocazioni economico/produttive tradizionali, senza lasciare alternative credibili sul territorio in termini di sviluppo sostenibile, occupazione e qualità della vita. E non stiamo parlando di generiche emergenze ambientali, ma di elementi concreti, portati avanti con lucida ferocia dalle lobbies politico/economiche romane che stanno facendo saltare le condizioni minime per la vivibilità dei nostri territori: dal depauperamento della falda idrica del Vulcano Laziale, alla progressiva perdita di ettari ed ettari di bosco, dall’aumento della concentrazioni di sostanze tossiche nelle acque potabili al dissesto idrogeologico favorito dall’asfaltazione e dall’edificazione selvaggia, per finire col progetto di realizzazione dell’inceneritore più grande d’Europa sull’asse dell’Appia, ad Albano Laziale.

Ed insieme alla nostra terra scompaiono anche le relazioni storiche e mitico/rituali fra uomo e territorio, nello specifico fra uomo e patrimonio di fauna e flora locale. Una scomparsa doppiamente dolorosa, poiché sottrae alla comunità una parte importate e significativa della storia e dell’identità locale e perché tale scomparsa avviene silenziosamente, come spesso accade per i fatti della cultura popolare. Senza, cioè, che si mobilitino le intelligenze e le competenze necessarie almeno a documentare e a preservare la testimonianza storica dei saperi della terra locali.

Il paradigma cultura/natura, declinato nel rapporto uomo/animale è uno dei modelli di analisi più semplici ed al tempo stesso più fecondi degli studi storico/antropologici. In base a tale paradigma le comunità umane, nello stabilire l’insieme delle differenze che separano l’umano dall’animale (e tanto più l’umano dal vegetale) al tempo stesso gettano ponti fra questi mondi, istituendo una serie incredibilmente articolata e suggestiva di relazioni che testimoniano del profondo rapporto di interdipendenza fra uomo e territorio, e non in senso astratto, in quanto i linguaggi del mito e del rito godono di una loro profonda concretezza storica, economica, sociale, produttiva ed occupazionale.

Contiguità, questa è la chiave di lettura che tiene insieme da millenni le comunità dei Castelli Romani. Una contiguità non solo dettata dalle interrelazioni di dipendenza che le comunità dei Castelli hanno storicamente istituito con gli animali e le piante del territorio. Una contiguità fatta di corpi sociali, culturali, animali e vegetali che si compenetrano e si identificano reciprocamente, stabilendo analogie simboliche, linguistiche e semantiche non solo fra l’umano e il non umano, ma anche fra animali e piante tra loro, in una salutare e significativa etologia olistica che testimonia più di mille studi biologici la necessità di recuperare un rapporto con l’ambiente non asettico e non speculativo.

All’umano più umano del pensiero filosofico occidentale moderno e contemporaneo, le culture tradizionali orali contrappongono, in una dialettica storicamente sempre negata dall’egemonia culta, l’umano animale e l’umano vegetale. Oppongono il corpo glabro dell’uomo, vestito di cultura, ma che, all’uopo, si ammanta di pelo e zanne per difendere la terra; mette radici, foglie, fiori e spine nell’apparente fissità del mito; si fa gigante, accoglie senza ambiguità semantiche lo “scandalo” della ferita mortale e si accascia a dar vita a monti, colli e valli; piange lacrime a fiumi, letteralmente; si fa testimone vivo, presente e insopprimibile di un’alterità socioculturale riducibile solo nella misura in cui è privata del suo campo d’azione: quel territorio che è al tempo stesso il testo ed il contesto delle dinamiche sociali, economiche, produttive proprio delle culture orali.

Questa è, dunque, la questione cruciale della nostra area: qual è il rapporto che, allo stato presente, intratteniamo con l’ambiente, col nostro ambiente? È quanto mai decisivo capire se, in prospettiva, il futuro ci riserva solo una scelta fra tradizione e innovazione, o se è ancora possibile pensare ad una terza via, che integri i segni del progresso tecnologico e sociale senza rinunciare per questo alla ricchezza e alle specificità culturali che sono proprietà inalienabile di ogni comunità umana.

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